NEET: debolezza, insicurezza e inutilità

In Italia, come in altri Paesi, capita spesso di trovare giovani che non si vogliono impegnare in percorsi di istruzione, non ricevono formazione né cercano lavoro. Rimangono inattivi non solo perché è difficile trovare un’occupazione o perché non hanno le risorse da investire nello studio o nel tirocinio, ma per la mancanza di voglia e motivazione.

Quale problema sociale si nasconde dietro questo fenomeno?

Come si potrebbero definire? Il termine NEET (acronimo di Not Engaged in Education, Employment or Training; in italiano né-né) venne utilizzato per la prima volta in un report della Social Exclusion Unit del governo del Regno Unito per indicare proprio questo fenomeno sociale, con riferimento ai giovani nella fascia di età compresa tra i 16 e i 24 anni. Oggi, se osservato su larga scala, l’indicatore d’età potrebbe estendersi sino ai 35 anni, se non ai 65 (in questo caso, il termine utilizzato per indicare tali persone è madao, di derivazione  giapponese).

Mappa dei NEET nel mondo
Indice elaborato da Pwc (PricewaterhouseCoopers)

L’Italia è uno dei Paesi dove il fenomeno dei NEET presenta forti criticità. In particolare, esiste una netta differenza tra Nord e Sud. Infatti sono Sicilia, Campania, Calabria e Puglia le regioni in cui si trova la maggior concentrazione di NEET. Qui, circa tre ragazzi su dieci, tra i 15 e 25 anni, si trovano in questa condizione.

Il modo per capire questo fenomeno è scoprire le sue origini, radicate alla base della nostra società: gran parte dei giovani è nichilista e priva di speranze, forze e capacità di reazione. È come se venissero travolti da una marea incontrollata senza avere la possibilità di spostarsi. Questa marea rappresenta le delusioni, la mancanza di motivazioni e la poca fiducia in se stessi.

Una delle cause di questa apatia arriva anche dai social, che spesso spingono a mostrare ciò che non si è, oppure ciò che servirebbe per apparire al meglio, invece di essere utilizzati come strumento di dialogo aperto, di confronto e di incontro sulle idee, sulle esperienze, sulle motivazioni e sulle sensazioni, come fosse una nuova e moderna agorà dove poter esprimere se stessi.

I NEET, infatti, tendono a farsi influenzare moltissimo, e quindi, a lasciare le redini a qualcun altro, ad esempio ai genitori o a persone che facciano al posto loro ciò che loro stessi dovrebbero fare. Ecco che torna l’idea di nichilismo, secondo la quale per loro nulla vale e tutto può disintegrarsi senza alcuna ripercussione sul proprio mondo. Per risolvere questo problema bisognerebbe dare maggiori stimoli all’autonomia e all’intraprendenza; bisognerebbe incentivare quella convinzione che ai NEET manca, perché possano contribuire con la propria originalità e unicità.

È questo che manca: sentirsi unici, indispensabili e incredibilmente speciali. Tutti hanno una predisposizione: dall’arte alla cucina, dalla scrittura ai fumetti. Si dovrebbe consigliare proprio questo, ossia concentrarsi su ciò che si ama, seguire le proprie passioni e non seguire schemi astratti per afferrare sogni.

I NEET sono solo l’immagine evidente del rifugio nella pigrizia, nella protezione del dire “tanto nulla ha valore”, quando non si riesce a vedere l’utilità di ciò che amiamo e come, per mezzo di esso, poter contribuire alla collettività.

Nessuno è inutile, nessuno è migliore o peggiore, ognuno è unico.

4 commenti su “NEET: debolezza, insicurezza e inutilità”

  1. Patrizia Ciummo ha scritto:

    Vivissimi complimenti, Matteo: analisi e sintesi circostanziate e, al tempo stesso, sorrette da un’esposizione fluida e chiara, facilmente fruibile e perciò efficace. L’argomento è sicuramente importante; lo approfondiremo senz’altro anche in classe.

    1. Matteo Verbo ha scritto:

      Grazie mille. Sono contento di essere riuscito a renderlo leggero e non contorto, come questo tipo di argomenti porta a fare.

  2. Nello Berardo ha scritto:

    I miei più siceri complimenti all’autore dell’articolo per le sue abilità nello sviscerare un argomento di cui spesso si parla in maniera così superficiale da far passare il concetto di NEET come qualcosa di trascurabile.
    Purtroppo gran parte del giornalismo italiano, almeno quello di fama nazional-popolare, non è in grado di spiegare una situazione del genere come è stato in grado di fare l’autore di questo articolo, perchè per scrivere certe cose bisogna starci in mazzo.
    Parlando da adolescente confermo che i NEET sono una realtà molto più diffusa di quanto non si creda, articoli come questo ci mettono allerta sull’essere così presuntuosi da dire “non è il mio caso” (o “non è il caso di mio figlio” nel caso fosse il genitore a leggere l’articolo ).
    Basta guardare i dati della Pwc e fare “due più due” per rendersi conto quanto l’esortazione e la motivazione non siano discorsi astratti e inutili e che se non si trasmette ai ragazzi che essere coraggiosi nella vita significa soprattutto avere il coraggio di seguire i propri sogni.

    1. Matteo Verbo ha scritto:

      Grazie del commento, Nello. È molto accurato e preciso. Condivido in pieno le tue idee, ma, in particolare, sottolineo il concetto riguardo all’essere così presuntuosi da dire “non è il mio caso”, perché in fondo è la base di ogni problema: essere convinti di non avere quel problema. E la sua negazione è come se lo ingradisse e lo rendesse ancora più invisibile agli occhi di chi lo ha. Dovremmo invece affrontarlo con coraggio iniziando ad ammetterlo. Solo sapere dove si sbaglia aiuta a non sbagliare, come in questo caso.

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