Aldo Cazzullo e Dacia Maraini insieme per presentare “Giuro che non avrò più fame”

Foto di Giulia Tassini

Una piccola folla entusiasta ha assistito, nella libreria indipendente “Scritti e Manoscritti” di Ladispoli, l’assolata mattina del 15 marzo, alla presentazione del saggio più venduto del 2018 (con 140.000 copie), Giuro che non avrò più fame. L’autore è Aldo Cazzullo, penna di spicco del Corriere della Sera, invitato per l’occasione assieme al giornalista Eugenio Murrali, habitué degli eventi della libreria, e a un’accompagnatrice d’eccezione, la scrittrice Dacia Maraini (la quale alcuni mesi fa era già stata a Ladispoli ed aveva già incontrato il nostro giornale) che ha introdotto il libro definendolo, per la sua scorrevolezza e fluidità, “una cavalcata molto veloce scritta con molta intelligenza”.

Giuro che non avrò più fame trae il suo nome da una nota battuta del kolossal americano Via col vento (film del ’39 arrivato in Italia solo nel ’45), pronunciata dalla protagonista Rossella O’Hara quando, stremata dalla fame e dalle peregrinazioni, torna nella sua tenuta devastata, strappa da terra una radice, la morde e grida al mondo “Giuro che non soffrirò mai più la fame”. “Credo che quel giuramento collettivo” – afferma Cazzullo – “l’abbiano fatto un po’ tutti i nostri padri e le nostre madri, gli italiani di settant’anni fa”. L’argomento del libro è, infatti, la Ricostruzione, materiale e morale, dell’Italia distrutta dalla guerra. Il 1948, l’attentato a Togliatti, Coppi e Bartali ma anche Wanda Osiris, Totò, Ingrid Bergman in Italia, il genio di Adriano Olivetti e la statura intellettuale di De Gasperi: insomma, un affascinante e incalzante ritratto di un’Italia che, pur con le sue contraddizioni, si rimbocca le maniche per rinascere dal baratro in cui è caduta.

Aldo Cazzullo parla del suo libro. Foto di Giulia Tassini

Non mancano però riferimenti all’attualità, anche sostanziali. Il messaggio forse più importante (o almeno quello cui l’autore maggiormente tiene) sembra quello di una delle prime pagine: “anche oggi l’Italia è un Paese da ricostruire. Dieci anni di crisi hanno seminato meno morti ma più scoramento che cinque anni di guerra mondiale”. L’Italia, dice Cazzullo, è un Paese depresso, che ha smesso di credere nel futuro, che non riesce più a guardare avanti, che si crogiola nell’ignoranza (e che anzi all’ignoranza attribuisce valore positivo), che non ha più idee. Tutto il contrario del vitalismo delle generazioni passate, dell’energia con la quale parteciparono alla vita politica: le leggendarie elezioni del 1948, in cui si scontrarono, senza esclusione di colpi, il Fronte Popolare (socialisti e comunisti) e la Democrazia Cristiana. Due ideologie diverse, due blocchi del mondo diversi: sovietico gli uni, americano gli altri. Due fazioni ugualmente “agguerrite” per contrastarsi l’un l’altra: sono comiche, ma fanno anche riflettere, le trovate elettorali dei due partiti, dal celeberrimo “nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no” coniato da Guareschi per la Dc, al canto dei militanti del Fronte in cui si asserisce che Cristo non sta con i democristiani, “traditori della libertà (…) ma lui sta col Fronte popolar!”, fino alle scelte discriminatorie dei parroci contro i comunisti o all’assurda vicenda del socialista Mancini in Calabria, che, mentre parla in un comizio, è interrotto da un’improvvisata processione guidata dal locale parroco, a cui seguono le inquietanti fake news dei giornali cattolici che lo dicono colpito da un attacco apoplettico, o paralizzato, o addirittura morto. Un clima infuocato, da cui emerge vincitrice la Democrazia Cristiana, grazie anche all’interessamento della Santa Sede (nella persona di Sua Santità Pio XII, che non esiterà a dire che con la vittoria della Dc “i cieli d’Italia sono più luminosi”) ma da cui nasce una classe dirigente nuova, colta, radicalmente diversa dalla “casta” rumorosa di cui oggi si parla. Stupisce, e Cazzullo vi insiste, la distanza culturale abissale tra i politici odierni e personalità come Alcide De Gasperi, leader della Democrazia Cristiana, che leggeva in originale Virgilio e Senofonte, o Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista, che, svegliatosi dal coma dopo l’attentato preparatogli fuori dal Parlamento da un estremista di destra, chiese in latino informazioni al chirurgo che lo aveva operato. Due personalità diversissime: pacato, gentile, devoto al papa ma capace di gesti di indipendenza politica rispetto al Vaticano il primo, severo, poco loquace e inflessibile esecutore degli ordini di Stalin il secondo.

L’Italia che li ha votati è un’Italia povera, ma laboriosa, un’Italia capace di raccogliersi attorno a due leggende dello sport “nazionale”, il ciclismo, come Gino Bartali e Fausto Coppi, o di ridere grazie alla rivista riportata in auge da comici come Totò e Macario, un’Italia che, grazie all’inventiva di imprenditori eccezionali come Olivetti e Enrico Mattei, patron di aziende all’avanguardia sul piano internazionale, riesce a riportare in pochissimi anni la produzione industriale (che con il conflitto era calata del 75 per cento) ai livelli prebellici. L’Italia del Neorealismo, di grandi registi come Luchino Visconti, che gira nella Sicilia orientale (“di una povertà medievale”, come rileverà Franco Zeffirelli, suo assistente durante le riprese) La terra trema, o di Roberto Rossellini, protagonista di una eccezionale diatriba cinematografica con la ex-compagna Anna Magnani, “tradita” con la star internazionale Ingrid Bergman per la realizzazione di Stromboli, film ambientato appunto sulla celebre isola delle Eolie, cui la Magnani fece eco con Vulcano, ambientato anch’esso alle Eolie (in particolare, fotografo di scena di quest’ultimo film era Fosco Maraini, padre di Dacia). La querelle si risolse con un flop per entrambi i film.

Dacia Maraini legge un brano del libro. Foto di Giulia Tassini

Ma l’Italia del dopoguerra è un’Italia arretrata, moralista, maschilista. Le donne, tutte, fanno fatica a far valere i propri diritti su quelli degli uomini. L’adulterio femminile è reato, ma non quello maschile. È ancora in auge il matrimonio riparatore, oltraggiosa tradizione che coraggiosamente rifiuterà la giovane siciliana Franca Viola. Claudia Cardinale, che ha avuto un figlio da una violenza, è costretta dal marito a farlo passare per un fratello; Mina ha un figlio che porta il suo cognome e non quello del padre, sposato con un’altra donna. Teresa Mattei, militante comunista (è sua l’idea di regalare l’8 marzo un ramo di mimosa), deputata alla Costituente, si scontra contro il moralismo del suo partito: resta incinta di un uomo già sposato, l’industriale Bruno Sanguinetti, e Togliatti le impone di rinunciare al bambino. Ma Teresa rifiuta, e per tutta risposta non sarà ricandidata per il Parlamento e la sezione toscana del Pci cui è iscritta la espelle per indegnità morale. Alba de Céspedes dirige la rivista Mercurio ma qualche lettore continua a chiederle chi sia il vero direttore. Lina Merlin riesce, nel 1958, con dieci anni di ritardo sugli altri Paesi europei, a far chiudere le case di tolleranza per le quali lo Stato era tenutario di bordelli. È superfluo dire che il divorzio non è ammesso. Ma è da queste anacronistiche contraddizioni che le grandi rivendicazioni femministe potranno portare a epocali passi in avanti, come le leggi sull’aborto e sul divorzio, e a numerosi altri miglioramenti che hanno elevato l’Italia la rango di Paese civile. 

Chiediamo a Dacia Maraini, che nel suo romanzo autobiografico Bagheria con i suoi occhi acuti di bambina ha descritto efficacemente la miseria e la povertà dell’Italia della fine degli anni ’40 e la tremenda situazione delle donne (nel libro si parla anche di padri che violentano le figlie condannandole a eterna vergogna), e che è da decenni in prima linea per le donne e per la solidarietà femminile quanto lavoro ancora resta da fare per l’uguaglianza e la parità tra donne e uomini. Le sue parole suonano come un monito. Ci risponde: “Di lavoro da fare ce n’è ancora parecchio. Anche perché in questo momento stiamo tornando indietro, è in atto un processo di regressione. Rischiamo di perdere quei diritti che avevamo conquistato con il femminismo, col Sessantotto. Spero che ci sia una reazione degli italiani, perché perdere quei diritti per cui abbiamo tanto faticato, tanto battagliato, mi sembra gravissimo. C’è una gran parte del Paese che vorrebbe tornare indietro, ma sinceramente io credo che non si possa tornare indietro. O meglio si può, ma diventa un artificio, perché il Paese è molto più avanti di queste idee. Ma c’è qualcuno che vuole tornare indietro, e può riuscirci”.

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