Fiction e violenza: analisi critica o celebrazione?

Mare fuori è una seria televisiva italiana diretta da Carmine Elia e trasmessa dal 23 settembre 2020 su Rai 2. Ambientata nell’Istituto di Pena Minorile di Napoli, situato a picco sul mare, la serie racconta le vicissitudini di 70 detenuti, di cui 50 ragazzi e 20 ragazze, che pensano che lo sbaglio sia proprio farsi arrestare. Tutti quanti al momento del loro ingresso nel carcere hanno meno di 18 anni. Accanto a loro ci sono la severa direttrice, il capo della polizia penitenziaria, gli educatori e altre autorità che cercheranno di fare del loro meglio per dare una seconda chance ai detenuti.

La violenza nella fiction non è certo un optional; è lo strumento attraverso il quale il più forte s’impone sui detenuti più deboli, servendosi spesso dell’aiuto dei propri compagni di cella. Gli episodi esemplificano, uno dopo l’altro, la mentalità criminale, che affonda le proprie radici soprattutto nelle menti di giovane età. Nelle condotte dei ragazzi detenuti è possibile rintracciare delle movenze “mafiose”, che ancora una volta risultano protagoniste di sceneggiature italiane.

Ma qual è il fine della rappresentazione televisiva di tali comportamenti?  Ci si limita a dipingere negativamente il nostro paese e fare di questi atteggiamenti oggetto di emulazione? O viene data agli spettatori la possibilità di studiare e comprendere la mentalità criminale per esiti positivi?

Spesso s’incorre nel rischio di rendere la figura del criminale affascinante e attraente, con la possibilità di far nascere nello spettatore un’ambizione a diventare come il personaggio presentato.  Inoltre una serie di ricerche hanno dimostrato che la visione prolungata della violenza può indurre nel pubblico un aumento dell’insensibilità alla violenza stessa nella vita reale e nei confronti delle vittime. Anche se in un primo momento gli spettatori possono sentirsi toccati, gradualmente vi si abituano sino a perdere ogni sensibilità nei suoi riguardi. Di conseguenza, possono sentirsi meno infastiditi dalla violenza ed essere meno disposti a prendere le parti delle vittime.

Milly Buonanno, figura di spicco nell’ambito della sociologia del nostro Paese, sostiene che l’effetto emulativo risulti più forte nei membri della criminalità. La rappresentazione dettagliata del pensiero criminale è finalizzata a rendere a pieno il clima di violenza e di sete di potere che si respira in determinati ambienti. Ma la volontà del regista non è di certo quella di spingere i telespettatori a quei medesimi comportamenti, bensì  allo studio e alla comprensione delle cause di tali psicologie, così da consapevolizzare coloro che guardano.

In conclusione risulta necessario ribadire che l’impegno debba provenire da entrambe le parti, ossia tanto dal regista, il quale ha il compito di perseguire sempre un ideale educativo, quanto dal telespettatore, che deve osservare il susseguirsi delle scene con attenzione e animo critico, così da non incorre in quella superficialità, causa principale di azioni emulative errate.

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