Covid: quanto dura l’immunità dopo la malattia?

Dopo che si sono verificati casi di reinfezione, abbiamo capito che dobbiamo fare i conti con nuove incognite. Non bastava la travolgente seconda ondata, un altro lockdown, il rumore di fondo delle ambulanze e quelle eterne mascherine che seminiamo ovunque, nelle tasche, in borsa, sul cruscotto dell’auto. Ora sappiamo che gli anticorpi sviluppati dal primo scontro con il coronavirus durano solamente qualche mese. L’immunità era dunque un falso mito, un’illusione infranta? Un articolo della rivista Nature (poi ripreso da vari quotidiani nel mondo), racconta due episodi di reinfezione, tra cui quello di un 33enne di Hong Kong che, guarito a fine marzo, dopo nemmeno 5 mesi è risultato nuovamente positivo a un controllo in aeroporto. Nel suo caso non si era neanche accorto di essersi infettato. Intervistata da Nature l’immunologa cinese Akiko Iwasaki aveva commentato: “è un bell’esempio di come risponde il sistema immunitario”. Ossia, dopo una prima infezione, il nostro sistema ricorda il nemico e la volta dopo ha partita più facile nell’impedirgli di fare danni.

L’immunologa Akiko Iwasaki
fonte immagine: National Geographic Society

A smorzare il senso di sollievo di Iwasaki è però arrivato un paziente dal Nevada: 25 anni, ammalatosi anch’egli a marzo, guarito ad aprile, tornato vittima del coronavirus a giugno. Ma in forma più grave della prima, tanto da aver bisogno di un ricovero per problemi respiratori (del suo caso ha parlato un’altra rivista, Lancet). Un altro studio, condotto da un team di Amsterdam e apparso sul sito Medrxiv, indica che la protezione naturale dell’organismo nei confronti del Sars-Cov-2 si perde nel giro di sei mesi circa. E ancora più sconfortanti le conclusioni di un team cinese della Scuola di medicina Nanjing University, che per 7 settimane ha monitorato il livello di anticorpi in 19 pazienti non gravi e 7 in condizioni più serie. Quasi il 20% (1 su 5) dopo circa un mese non aveva più tracce di difese neutralizzanti.

Seconda infezione, un’altra battaglia?

A questo punto, chi si è ammalato nella prima fase corre davvero il rischio di dover ingaggiare un’altra battaglia? I suoi anticorpi, duramente guadagnati, che fine hanno fatto? Aver superato una prima infezione aiuta a contrastare meglio il ritorno? In effetti era lecito sperare in un’immunità più longeva, visto che nel caso della Mers e della Sars ( le due altre infezioni respiratorie, ben più gravi, provocate da coronavirus) gli anticorpi restano in circolo un anno o più. Non è detto però che contro il Covid-19 le nostre difese “scadano”. “Un conto sono gli anticorpi, un conto è la protezione immunitaria” spiega Gennaro Ciliberto, ordinario di Biologia molecolare all’Università di Catanzaro e direttore scientifico dell’Istituto Nazionale Tumori di Roma. “Sulla protezione immunologica, nel caso di questo coronavirus, non abbiamo abbastanza informazioni. Sappiamo che la risposta anticorporale raggiunge il picco verso la fine dell’infezione attiva: i linfociti B, prodotti in grande quantità dalle plasmacellule, che poi declinano in qualche mese”. Quando viene meno lo stimolo infettivo, quindi, il sistema immunitario ridimensiona la sua dotazione di anticorpi contro il virus, altrimenti resterebbe in uno stato di attivazione permanente quasi patologica.

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Gennaro Ciliberto, fonte: Il Mattino.it
Vaccini: una speranza?

Al momento, sono 4 i vaccini approvati nel mondo: quello di Pfizer, sviluppato da Stati Uniti e Germania, ha avuto il via libera in Unione Europea, Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Arabia Saudita, Bahrain; Sinopharm sviluppato dalla Cina, costituito dal SARS-CoV-2 inattivato e approvato in Emirati Arabi, Cina e Bahrain; lo Sputnik V, sviluppato e approvato in Russia e che utilizza come vettore virale un adenovirus. Infine il vaccino a mRna dell’azienda Moderna sviluppato insieme al National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIH) statunitense, è stato approvato negli Usa e, dal 23 dicembre, anche in Canada, ma la richiesta per l’immissione in commercio in Europa è in corso e potrebbe essere conclusa in una riunione straordinaria dell’Agenzia Europea dei Medicinali in programma il 6 gennaio 2021. Tutto questo va di pari passo con gli studi sui farmaci anti Covid. Dei 72 in corso in Italia, 50 sono stati autorizzati dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa): 24 appartengono alla categoria degli immunomodulanti (cercano di mitigare la risposta infiammatoria generata nell’organismo dall’infezione), 10 studi si basano sull’uso di plasma iperimmune dei convalescenti, 10 su antitrombotici, 7 su antimalarici, 6 sugli antivirali. Inoltre, il 73% sono randomizzati, ovvero assegnano in modo casuale ai volontari il farmaco o il placebo, e il 77% di questi studi coinvolgono più centri di ricerca, aspetto qualificante perché permette di osservare i risultati in contesti clinici diversificati. Pochi giorni fa inoltre, Aifa ha annunciato anche l’intenzione di valutare l’avvio di una sperimentazione sugli anticorpi monoclonali, gli stessi usati anche da Donald Trump e già autorizzati in via di emergenza in alcuni paesi, tra cui Stati Uniti e Canada.

Prof. Andrea Cossarizza, fonte: ModenaToday

Avverte Andrea Cossarizza, professore ordinario di Patologia generale e Immunologia all’Università di Modena e Reggio Emilia: ”Se l’immunità da questa pandemia è un puzzle ancora incompiuto, cosa ci dobbiamo aspettare dai vaccini pronti a uscire dai laboratori? Se gli anticorpi sollecitati dalla vaccinazione staranno in circolo per un po’ e poi non più, che fare? C’è da capire quale sia il vaccino che usa la strategia migliore” riflette Cossarizza. Quello che dovrà venire fuori, in ogni caso, è un vaccino che induca una forte produzione di anticorpi neutralizzanti contro la proteina Spike e blocchi l’entrata del virus nelle cellule. Anticorpi altrettanto efficaci di quelli innescati dalle forme severe di malattia: potenti, quindi, e non come in chi il Covid-19 l’ha superato con lievissimi sintomi. Anche questi anticorpi però dopo alcuni mesi scenderanno. Ci dovremmo vaccinare ogni anno? È assai probabile. Il che complica non di poco tutta la faccenda: produrre ogni 12 mesi una quantità spaventosa di dosi di vaccino, stoccarlo, conservarli a temperature siberiane e distribuirle a mezzo pianeta è un eufemismo oltre che un gran lavoraccio. E lo si dovrà fare finché il coronavirus non si sarà estinto, come quello del vaiolo, o sarà diventato un’influenza non più grave di quella stagionale, da passare a letto leggendo un libro anziché nel girone dantesco di un reparto di terapia intensiva.

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