Se è vero che noi giovani dobbiamo guardare al futuro ed essere fautori del cambiamento, penso sia altrettanto vero che il retaggio famigliare debba accompagnarci in questo percorso: un bagaglio prezioso di esperienze che possono aiutare a non smarrire la strada e ad andare dritti verso l’obiettivo di creare un mondo migliore. È per questo che vorrei raccontarvi la storia del mio bisnonno Pietro Frezza, un uomo molto conosciuto sia a Ladispoli che a Cerveteri, che per me e la mia famiglia è sempre stato un esempio di coraggio, ispirazione e rettitudine.
Pietro nasce nel giugno del 1915 ad Atina, un paese dell’entroterra laziale in provincia di Frosinone, e sin da bambino sentiva forte quel legame verso la madre Patria. Un amore oggi che oggi appare più distante e incomprensibile per noi, eppure un tempo è stato motore del cambiamento che quei giovani hanno voluto così tanto, a costo addirittura della vita. Appena diciannovenne, si arruola nell’arma dei Carabinieri Reali nella legione Lazio, mosso dal desiderio di non rimanere indifferente alle vicende che stavano colpendo l’Italia in quel periodo difficile, in cui sono vividi i racconti della guerra del ’15-’18 e il regime fascista è al potere.
La seconda Guerra Mondiale
Dopo varie ricerche storiche intraprese dalla mia famiglia presso l’Arma dei Carabinieri, il Ministero della Difesa, la Fondazione Memoria per la Deportazione, l’Archivio dei deportati in Germania e l’Ambasciata è stato possibile recuperare tutta la documentazione storica della vita militare di Pietro e ricostruire le sue gesta eroiche. Nel 1941 parte per l’Albania, territorio in quel periodo in stato di guerra, con il 4° Battaglione dei Carabinieri Reali mobilitato III Compagnia. Nel 1943 viene catturato insieme ai suoi compagni dalle truppe tedesche a Giakova. Viene subito deportato nel campo di concentramento e smistamento n° 11B di Fallingbostel vicino a Berlino, per poi essere trasferito al Laker Dora-Mittelbau.
Nel lager tedesco
Il Laker Dora-Mittelbau era un posto tremendo: i deportati erano costretti a scavare tunnel sottoterra a turni di sei mesi e senza riposo: chi riusciva a sopravvivere, quando usciva dal tunnel, rimaneva per giorni quasi cieco perché oramai gli occhi erano abituati solo all’oscurità. Nonostante ciò era costretto a lavorare ancora, sotto il controllo serrato delle guardie che erano impassibili aguzzini. In questi tunnel l’aria era irrespirabile non solo per la profondità, la scarsa ventilazione e le operazioni di scavo, ma anche a causa delle fogne, che erano dei canaletti a cielo aperto o al più delle botti ricolme di deiezioni. Inoltre i cadaveri venivano posti ai lati dei condotti e si decomponevano tra ratti e scarafaggi, un vero e proprio inferno in terra. Quando quei pochi riuscivano a “riveder le stelle”, erano considerati veramente fortunati, perché potevano respirare aria fresca e potevano mangiare qualche cosa in più, come le bucce crude delle patate scartate dai pasti dei soldati tedeschi. Ma anche fuori era un inferno, e molti morivano di stenti o di freddo.
Il campo di concentramento Dora-Mittelbau era famoso perché i nazisti vi realizzavano in gran segreto i famigerati missili balistici V2. Quei tunnel scavati dai deportati servivano proprio da laboratori e officine missilistiche, talmente ben occultate da non essere avvistate dai ricognitori aerei americani, che al loro passaggio scorgevano solo boschi selvaggi.
Arrivato al lager, Pietro fu consegnato alle dirette dipendenze delle SS combattenti, le Waffen-S, dichiarate poi nel processo di Norimberga come organizzazione criminale. Questi reclutavano volontari tra i deportati catturati nei paesi invasi e tra prigionieri scelti, per costituire numerose legioni fedeli per paura alle SS. In particolare cercavano di reclutare i kapò, i detenuti “privilegiati”, incaricati di sorvegliare il lavoro degli altri detenuti e di fare la spia riferendo ogni cosa che vedevano.
“Mio nonno non amava parlare del periodo della guerra” mi racconta mia madre, “ma tra tutti i documenti che ho ritrovato per ricostruire i fatti della storia, uno mi ha lasciato sconvolta.”
Poche righe di una lettera manoscritta su un foglio ingiallito dicevano:
“Dopo essermi rifiutato per ben 3 volte di arruolarmi nelle loro file (S.S.) fui vestito da ergastolano e sottoposto a continue torture di ogni genere e a pesanti lavori”.
Immaginiamo un ragazzo di ventotto anni, già in guerra da due, che si trova di fronte a questa gente così spietata che gli offre la possibilità di “salvarsi”, a patto di fare il kapò, e invece sceglie di non tradire la sua patria, i suoi ideali, i suoi compagni. Rifiuta, rifiuta più volte, consapevole che sarebbe stato poi alle torture dei deportati politici e razziali, come era la regola in quel campo di concentramento tremendo.
Quando l’8 maggio del 1945 fu liberato insieme agli altri internati dalle truppe alleate, anche tornare a casa non fu facile. Dal cuore della Germania, dove si trovava il campo di concentramento, i prigionieri liberati affrontarono un viaggio lunghissimo a piedi fino al mare, per potere raggiungere la loro patria. Nel percorso morirono molti compagni, amici, volti con cui si era condiviso l’inferno. Eppure la vita vince sempre sulla morte, e Pietro riuscì a tornare a casa, con gli occhi pieni di orrori indicibili e indimenticabili.
Pietro aiutò e salvò molte persone negli anni della prigionia. Il suo altruismo e la sua fermezza gli valsero tre Croci al Merito di Guerra, tre medaglie al Valor Militare e il fregio di Volontario Patriota della Libertà.

Dopo la guerra in servizio a Cerveteri
Nell’ottobre del ’45, con la guerra ancora negli occhi, Pietro rientra in servizio nella Stazione dei Carabinieri di Cerveteri, fino al congedo. Nella città etrusca è molto rispettato e lui non teme di contraddistinguersi con un altro gesto eroico: nelle campagne tra Civitavecchia, Santa Marinella e Cerveteri, imperversava un bandito spietato, il giovane “Faccia Gialla”, nome di battesimo Antonio Altana, che sequestrava e ricattava tutti gli abitanti del comprensorio. Durante un lungo inseguimento dei Carabinieri di Cerveteri, il bandito sparò dei colpi di pistola. Per proteggere i suoi compagni e il Comandante, Pietro si gettò in avanti, rimanendo ferito, ma permettendo l’uccisione del malvivente.
A questo gesto coraggioso seguirono due encomi solenni da parte del Generale Romano dalla Chiesa, padre di Carlo Alberto, il Generale assassinato in un agguato a Palermo del 1982.
L’impegno sociale nella comunità della neonata Ladispoli
Quando penso a quello che ha fatto, mi emoziono veramente molto, e mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Una vita passata a proteggere gli altri, a costo della sua stessa salute, non è un sacrificio che tutti saprebbero fare.
Ma proseguiamo nella storia. Quando arriva il congedo, nel 1950, proprio a causa dello stato di salute e delle ferite di guerra, si sposa con la mia dolcissima Marta, la mia bisnonna recentemente scomparsa, e va a vivere a Ladispoli, allora frazione di Cerveteri.
Ma quando hai nel cuore la voglia di fare del bene, non rimani mai con le mani in mano. Così a casa sua Pietro insegnava a leggere e scrivere a tutte le persone che non sapevano farlo, che a quel tempo erano molte. Poi, delle sere, tutti i vicini si riunivano da lui perché aveva la televisione: a ognuno veniva data una sedia, poi Marta preparava un po’ di rinfresco e ognuno portava qualche cosa. Tempi di fiducia e di semplice stupore, che difficilmente torneranno. Nonostante le mille difficoltà dev’essere stato un periodo veramente positivo, di ricostruzione post-bellica dell’Italia, ma anche di quei rapporti sociali che sempre la guerra aveva interrotto o allontanato.
Poi c’era l’Italcaccia di Ladispoli, della quale il mio bisnonno è stato Presidente dagli anni ’50 fino alla morte, avvenuta il 7 dicembre del 1980. Appassionato di “ars venandi”, che in quel periodo era un sostentamento per le famiglie, non un mero sport come oggi, e desideroso di seguire i giovani della neonata Ladispoli, aveva creato veramente una grande famiglia che andava ben oltre la caccia. La sua morte lasciò un vuoto incolmabile nella comunità. Lo testimonia un’accorata poesia che gli venne dedicata dal poeta dialettale di Ladispoli SIRAP, Sergio Paris, dal titolo Pensiero, datata 1981.

Piazza Pietro Frezza a Ladispoli
Una persona così altruista non poteva essere certo dimenticata dalla comunità. Anche se ero molto piccola, ricordo con forte intensità la cerimonia di intitolazione al mio bisnonno della piazza nel quartiere Miami, il 2 agosto del 2014, con il Sindaco Crescenzo Paliotta. Tantissime persone hanno partecipato. Le alte uniformi dell’Arma dei Carabinieri, ma anche tante associazioni d’Arma, i Combattenti, l’Aeronautica, i Bersaglieri, la Marina Militare. Una grande festa in ricordo di una persona che ha dedicato la propria vita agli altri.
Pietro Frezza è stato davvero un eroe d’altri tempi che ha lasciato a me e alla mia famiglia un esempio di coraggio e di ideali di libertà e giustizia che sono tutt’oggi d’ispirazione. Con orgoglio grido: “è il mio bisnonno!”.