Sharenting: quando la privacy del bambino è violata dal genitore

Oggigiorno appare assolutamente normale condividere la propria vita sui social network, fare entrare i nostri amici di Facebook o i follower di Instagram letteralmente in casa nostra, far sapere a tutti quello che facciamo, cosa mangiamo, il film che vediamo o cosa pensiamo. Per questo la rete è diventato un luogo pieno di insidie e, oggi più che mai, risulta necessario proteggersi e tutelare la propria privacy.

Vediamo spesso, in televisione, spot che educano gli adolescenti all’uso consapevole della rete, ma la domanda che sorge spontanea è: chi dovrebbe educarli se i primi a essere inconsapevoli sono proprio i genitori?

Lo sharenting è quindi il fenomeno che consiste nell’eccessiva condivisione di contenuti che hanno per protagonisti i minori, sui social network, da parte dei loro genitori. 

Infatti, il termine, coniato dal Wall Street Journal, è una combinazione delle espressioni inglesi “over-sharing” (condivisione eccessiva) e “parenting” (fare i genitori). 

Sebbene, apparentemente, la questione non sembri così problematica, diverse ricerche affermano il contrario. L’organizzazione inglese Nominet, per esempio, ha dimostrato attraverso uno studio, che i genitori tendono a postare in media 300 foto dei propri figli ogni anno e in media 1500 entro il compimento del quinto anno di età, mentre uno studio del 2010 dall’AVG affermava che il 92% dei bambini americani di 2 anni è presente online. 

Benchè l’ossessiva sovraesposizione dei minori risulti essere per molti più pedante che pericolosa, diversi studi di psicologia infantile portano alla luce la complessità del tema.

Il professore di psichiatria Elias Aboujaoude sostiene che lo sharenting possa portare il bambino a subire una competizione continua per ricevere l’attenzione del genitore troppo preso dalla rete. L’autostima dei bambini, inoltre, essendo facilmente influenzabile, risulterebbe altamente compromessa da reazioni online negative e questi, quindi, riscontrerebbero difficoltà nel formare la propria identità personale separandola dall’identità digitale creata dai genitori; oltre al fatto che spesso, i minori diventano vittime del cyberbullismo. 

Un’ulteriore degenerazione dello sharenting è il fenomeno denominato “rapimento digitale” che si verifica quando terzi si appropriano delle foto dei minori e li diffondono online. La ricerca ha dimostrato che la metà delle immagini pedopornografiche che circolano in rete derivano dalla manipolazione di immagini condivise sui social dai genitori; con la conseguente esposizione: una volta in rete, infatti, le informazioni, i video e le foto, o qual si voglia contenuto condiviso, sono a disposizione di tutti, ed è soprattutto per questo che un uso inconsapevole dei social può rilevarsi deleterio, per il minore che, di punto in bianco, si ritrova mercificato su siti web per pedofili ed ebefili. Senza contare poi, che anche altri tipi di malintenzionati – come rapitori o stupratori – possono accedere ai metadati che, corredati alle fotografie digitali, permettono di avere accesso a informazioni come le coordinate GPS dello scatto e quindi forniscono l’ubicazione del soggetto.

Il fenomeno dello sharenting è stato discusso anche nell’ambito del diritto di famiglia: la produzione di prove informatiche circa l’eccessiva condivisione di contenuti riguardante il bambino da affidare può essere fondamentale per determinare la condotta del genitore ai fini dell’affidamento del minore, in caso di separazione o divorzio dei coniugi.

L’argomento più discusso resta però il modo in cui i genitori possano trovare il giusto compromesso tra il loro diritto di condividere e la tutela della privacy dei figli.  La comunità europea sta lavorando per far sì che, una volta maggiorenne, il cittadino abbia il diritto di richiedere e ottenere la rimozione dei contenuti multimediali diffusi in rete quando era minore.

In Francia, la legislazione sulla privacy, anticipando la sentenza europea, prevede un obbligo di responsabilità di ciascun genitore nei confronti dell’immagine dei figli e quindi, qualora il genitore venga meno a quest’obbligo, può essere denunciato dal figlio che non aveva acconsentito precedentemente alla pubblicazione del contenuto.  La pena prevede una multa di 35mila euro o, nei casi più gravi, fino a un anno di detenzione per chiunque condivida immagini di bambini, figli compresi, senza il loro consenso.

Resta senza dubbio controversa la faccenda che, non trovando facile risoluzione del diritto, potrebbe essere sciolta con il dialogo che, sebbene caldamente consigliato da fior fior di terapeuti, resta, oggi, come un secolo fa, l’ultima spiaggia presa in considerazione.

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