Avatar: la rivoluzione digitale continua

Il seguito di Avatar: lo stavamo aspettando da tredici anni, e con lui il ritorno della meraviglia naturale e futuristica di Pandora. Ma come sono riusciti James Cameron e i suoi collaboratori a riportarci in quell’atmosfera così magica e allo stesso tempo realistica? Sicuramente in parte grazie al colossale budget che potrebbe aggirarsi intorno ai 400 milioni di dollari, concessione della produzione giustificata dall’incasso da record del primo film e dagli imprevisti causati dalla pandemia. Vediamo qui i diversi stratagemmi usati per degli effetti visivi magistrali.

Il regista James Cameron

Il regista, già da Avatar (2009) aveva chiarito i suoi intenti con questo tipo di film: riuscire a manovrare le inquadrature con una macchina da presa, non come in un normale film d’animazione. L’unico modo era quindi creare un mondo virtuale che rappresentasse il satellite di Pandora e immergercisi per girarci un film, come se fosse un set qualsiasi. Tutto questo era stato possibile solo grazie ad una “nuova” tecnica progettata dalla produzione di Cameron nel 2005: la performance capture. Come funziona? Semplificando, tutto avviene in un grande studio senza green o blue screen e senza vere e proprie cineprese: delle piccole telecamere sono montate in luoghi strategici per coprire interamente un’area circoscritta in cui gli attori recitano vestiti con una tuta nera e una struttura di sfere collegate tra loro poste all’altezza delle articolazioni. Le telecamerine fungono da sensori che captano e registrano le posizioni e i movimenti delle sfere e li inviano al computer.

Sigourney Weaver e il suo personaggio

Per simulare la macchina da presa, una gabbia di metallo viene applicata su una maniglia che il regista e gli operatori possono usare per gestire le inquadrature, dato che il punto di vista della cinepresa viene riprodotto digitalmente. Per fare poi in modo che i Na’vi (i nostri amati amici blu) restituiscano con i loro occhioni verdi le stesse emozioni espresse dal cast, i visi degli attori vengono riempiti di puntini, e un sensore puntato verso di loro viene montato sulla loro testa con un casco. Analogamente ai movimenti del corpo, le espressioni facciali vengono catturate e trasferite ai computer. Questa incredibile tecnologia permette ad esempio, nel secondo capitolo di quella che probabilmente diventerà una saga, all’attrice di settantatré anni Sigourney Weaver di interpretare una piccola avatar appena quattordicenne. Ciò vuol dire che non si ha bisogno di un cast di attori la cui sola faccia sulla locandina attirerebbe milioni di spettatori, ma “solamente” di interpreti capaci. Prima di “girare” però il film, tra il 2005 e il 2007 tutta la crew è stata sottoposta a corsi e prove generali in vere e proprie foreste, per imparare ad agire e comportarsi come un indigeno di due metri e passa. I Na’vi sono infatti più silenziosi e più rapidi, dai movimenti più fluidi e quasi felini. Così il regista canadese si ritrovò nel lontano 2010 a pensare ad un seguito per il suo grande successo dell’anno precedente con già almeno metà del lavoro di ricerca fatto, ma voleva comunque complicarsi la vita in qualche modo, e lo fece trasferendo l’ambientazione sott’acqua.

James Cameron ha sempre avuto due ossessioni: l’impossibile e il mare. Non c’era occasione migliore per lui di raggiungere questi due obiettivi di Avatar: la via dell’acqua.  Le preparazioni per il film sono state lunghe e faticose e comprendono esplorazioni sottomarine e ricerche scientifiche per migliorare l’efficienza e la resistenza in acqua della performance capture. Il regista di Titanic, nel 2012, ha partecipato alla seconda missione umana della storia nel punto più profondo del mondo nell’Oceano Pacifico. Grazie allo sponsor di Rolex, la squadra dell’azienda australiana Acheron Project Pty Ltd ha costruito il Deepsea Challenger, un sottomarino che l’ha portata a 10.920 metri sotto il livello del mare, nell’omonimo abisso Challenger che ha scatenato in Cameron l’esigenza di lavorare di più con le forme liquide, da sempre una sfida nel mondo dei VFX (effetti visivi). Già nel 2013, la produzione di Jon Landau aveva iniziato i test per la performance capture sott’acqua (in delle grandi piscine illuminate), che diventa più potente e resistente, in grado di processare più modelli e più velocemente. Questi miglioramenti permettono infatti al regista di utilizzare il green screen solo per le scene con presenze umane; ma soprattutto di mostrarci la nuova popolazione Metkayna che vive in simbiosi con il mare, con un vero mare, limpido e realistico.

Ancora una volta James Cameron porta in sala la rivoluzione digitale del cinema, per scrivere la storia della regia e degli effetti visivi. Come il suo predecessore, La via dell’acqua ha sbancato al botteghino: a sole due settimane dall’uscita l’incasso ammonta già a più di un miliardo di dollari. Per questi 192 minuti non ci sono altre parole: un figlio degno del successo senza precedenti di 13 anni fa.

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