Nobel per la pace 2018: un premio che sa di libertà e giustizia

Correva l’anno 1895 quando Alfred Bernhard Nobel, inventore della dinamite e ideatore e fondatore del premio Nobel, lasciò scritto nel suo testamento che la totalità del suo patrimonio dovesse costituire un fondo i cui interessi venissero distribuiti annualmente in forma di premio a coloro che, durante l’anno precedente, avessero contribuito più di altri al benessere dell’umanità.

“Detto interesse verrà suddiviso in cinque parti uguali da distribuirsi nel modo seguente: una parte alla persona che abbia fatto la scoperta o l’invenzione più importante nel campo della fisica; una a chi abbia fatto la scoperta più importante o apportato il più grosso incremento nell’ambito della chimica; una parte alla persona che abbia fatto la maggior scoperta nel campo della fisiologia o della medicina; una parte ancora a chi, nell’ambito della letteratura, abbia prodotto il lavoro di tendenza idealistica più notevole; una parte infine alla persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace.”

(Estratto del testamento di Alfred B. Nobel, Parigi, 27 novembre 1895)

Per rispettare il suo volere, dal 1901, ogni anno vengono elargiti questi riconoscimenti a persone valutate da diverse commissioni. Infatti, proprio qualche giorno fa, il 10 dicembre 2018, a Oslo sono stati insigniti del premio Nobel per la pace due personaggi che si sono battuti contro la violenza sessuale in contesto di guerra: Denis Mukwege e Nadia Murad.


Denis Mukwege e Nadia Murad al termine della cerimonia di consegna del Nobel 


Il primo, medico ginecologo e attivista congolese di 63 anni, è il fondatore dell’ospedale Panzi di Bakavu (sua città natale), dove si è specializzato nella cura di donne vittime di abusi sessuali. Questo suo impegno nel sociale gli è valso non solo la nomina di esperto negli interventi sugli organi interni lesionati dalle violenze (è stato anche soprannominato “the man who mends the women”), ma anche il prestigioso premio Sakharov, assegnato annualmente dal Parlamento europeo. Mukwege è inoltre noto per aver tenuto, nel 2012, un discorso alle Nazioni Unite denunciando l’impunità degli stupri di massa nel suo paese e in molti altri che criticò per il poco attivismo nei confronti di quella piaga. Lo stesso anno (2012) quattro uomini armati tentarono di ucciderlo facendo irruzione a casa sua, ma lui riuscì a scappare in Europa, ritornando in Congo solo nel gennaio del 2013 dove venne accolto all’aeroporto da una folla che si estendeva per circa venti miglia.

Alcuni dati, tratti da uno studio dell’American Journal of Public Health, ci dicono che durante i conflitti del Congo, ogni cinque minuti venivano stuprate quattro donne. Un dato aberrante. Azioni barbare e feroci che hanno lasciato nelle vittime strascichi psicologici, emotivi e fisici. In seguito agli abusi molte donne hanno infatti contratto l’Aids o sono incapaci di procreare, oltre alla gogna sociale che sono costrette a subire per la mentalità bigotta riguardante la purezza delle nubili.

Nadia Murad, invece, deve la sua fama al soprannome “fenice guerriera” derivante dalla sua tragica storia. Venticinquenne di origine irachena yazida, venne rapita all’età di vent’anni nell’agosto del 2014 dopo che fu costretta a guardare lo sterminio di sua madre e dei suoi sei fratelli, fu tenuta prigioniera da parte dello Stato Islamico. Riuscì a fuggire a novembre dello stesso anno solo grazie alla negligenza di un soldato che aveva dimenticato di chiuderla dentro a chiave. Durante il periodo di segregazione subì numerosi maltrattamenti e violenze di natura fisica, psicologica e sessuale da parte di diversi militanti dell’ISIS. É prima Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani da settembre 2016. Proprio da qui nasce la leggenda della fenice che, stoica, nonostante abbia patito un inferno che nessun essere umano dovrebbe provare, rinasce dalle sue ceneri più forte diprima. In psicologia tale caratteristica è detta resilienza, ovvero la capacità umana di far fronte a un evento traumatico riorganizzando la propria vita con uno slancio propositivo verso il futuro.

Nadia Murad avrebbe potuto tacere le violenze, ricominciare da zero e dimenticare tutto, ma ha deciso di lottare, e con lei anche Denis Mukwege, per porre l’attenzione pubblica globale su un problema che troppo spesso è stato ignorato.

“Questo è un premio che ci dà voce, il mondo deve sapere, ma non bastano i premi se non c’è la giustizia.”

Sono state queste le parole della ragazza una volto ritirato il Nobel. Parole che fanno riflettere, dal gusto dolce-amaro tipico di una vittoria mutilata, pregna della consapevolezza che, fuori, nel mondo, purtroppo certe cose continuano adaccadere. In tutto questo resta però comunque la speranza che continuino ad esistere ancora persone come Denis e Nadia, garanti e promotori di pace per un mondo migliore.

“E’ difficile immaginare due vincitori del Premio Nobel per la pace più degni di Nadia Murad e Denis Mukwege, questo è un riconoscimento meritato per questi due attivisti straordinariamente coraggiosi, tenaci ed efficaci contro la piaga della violenza sessuale e l’uso dello stupro come arma di guerra”

-Michelle Bachelet, Alto commissario dell’Onu per i diritti umani.

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